L’argomento del “male minore” è un argomento che puntualmente salta fuori quando vi sono da prendere determinate decisioni politiche o legislative. I favorevoli al “male minore” si pongono sulla linea del “cedere per non perdere”, sulla necessità di “limitare i danni”. Chi sposa questa prospettiva afferma che è doveroso scegliere un “male minore” se questo può servire a evitare un “male maggiore”. Oppure, trovandosi di fronte a due mali, si afferma l’obbligo di scegliere il minore perché bisogna avere il coraggio di “sporcarsi le mani”, mentre non scegliere affatto è considerata una condotta da irresponsabili.
Per la legalizzazione della fecondazione artificiale extracorporea (Pma: Procreazione medicalmente assistita) si è seguito in Italia lo stesso schema che ha portato alla legalizzazione dell’aborto. Così come la legalizzazione dell’aborto (male minore) doveva servire per sconfiggere l’aborto clandestino (male maggiore) e tutelare la salute delle donne, la legalizzazione della Pma (male minore) doveva sconfiggere il “far west della provetta” (male maggiore) e tutelare la salute delle coppie infertili.
Le manovre, i ricorsi e le sentenze all’attacco della legge 40: un riepilogo e alcune considerazioni12/4/2015
Il 19 febbraio 2004, il Parlamento italiano approva la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita ma, neanche tre mesi dopo, la legge finisce davanti al giudice a seguito di un ricorso presentato da una coppia. È solo un assaggio di quello che accadrà negli anni a venire, che vedranno il susseguirsi di una serie di attacchi puntuali e martellanti che ne eroderanno di volta in volta sempre più l’impianto. Per comprendere la portata e la qualità di quest’assalto alla legge 40, iniziamo col riepilogare le principali sentenze emesse dai Tribunali. Dalla visione del quadro generale potremo ricavare con più facilità alcune considerazioni. Negli ultimi decenni il politically correct ha provveduto a tirare a lucido una serie di vecchie parole, sostituendo il linguaggio antiquato con una nuova terminologia scintillante e rassicurante. La correttezza politica ha, altresì, trovato un fertile terreno nell’incontro tra biologia umana e diritti, legando i due in un robusto sodalizio. Qui si è sviluppata una strategia culturale all’avanguardia, volta a manipolare la percezione pubblica sulle grandi questioni della vita, sia cambiando nome alla realtà, sia rovesciando il significato delle parole.
Che il linguaggio cambi, con l’evolversi della società e della cultura, è un dato di fatto, ciò non vuol dire che le parole ammodernate possano chiarire meglio il senso delle cose, anzi, spesso è vero il contrario. Succede, infatti, che i nuovi termini più che chiarire, oscurino; più che evidenziare, nascondino; più che mostrare la verità, perpetuino la menzogna. Prendiamo, per esempio, l’aborto, tramutatosi nel più rassicurante “Interruzione volontaria di gravidanza” e poi, nel più asettico “Ivg”. Per cui, oggi, non si dice più “ho abortito”, troppo desueto; ma, “ho fatto una Ivg”. E tutti sono subito più tranquilli… Cos’è successo alle donne? Perché sono diventate così deboli e psichicamente fragili tanto che al primo sospetto di gravidanza vanno subito fuori di testa? Una vera emergenza sociale, questa sopravvenuta fragilità femminile, per cui gli ordinamenti giuridici hanno sentito la necessità di metterla per iscritto in una legge, rendendo lecito, al fine di curare le donne da questa gravissima malattia, l’uccisione del proprio figlio in grembo.
Una volta, quando l’uomo e la donna si univano in intimità potevano generare un bambino. Oggi non è più così, uomini e donne non ne sono più capaci. Da quarant’anni a questa parte, per bene che vada, al massimo producono un “grumo”.
L’entusiasmo per la sentenza n. 162 del 9 aprile 2014, con cui la Corte Costituzionale ha aperto le porte in Italia alla fecondazione eterologa, è stato presto smorzato dalla realtà dei fatti: non ci sono gameti, mancano soprattutto donne in età fertile desiderose di donare gli ovociti. L’arretratezza italiana nei confronti della “cultura della donazione” veniva evidenziata l’11 ottobre 2014, in un articolo del giornale digitale Linkiesta[1], da Laura Rienzi - presidente della Società italiana embriologia riproduzione e ricerca (Sierr) -: “In Italia manca completamente la cultura della donazione perché nessuno ha mai chiesto ai giovani di donare il proprio seme o ovocita”. Rispetto agli altri Paesi – aggiungeva Rienzi - “noi siamo indietro di almeno 10 anni”. La legalizzazione dell’aborto non ha conseguito solo fallimenti, ma anche “successi”. Se ha completamente mancato il fine di cancellare l’aborto clandestino e tutelare la salute della donna, non ha certamente fatto fiasco nel provocare – come tragica conseguenza - l’aumento abnorme del numero degli aborti.
Il sito internet www.uccronline.it ha dedicato all’industria dell’aborto un ampio articolo[1]. La vera base d’appoggio dell’aborto – si legge nell’introduzione – non è il “diritto di scelta” e nemmeno la “salute della donna”. Queste due false motivazioni sono usate per nascondere la vera questione, e cioè che dietro all’aborto si cela un’enorme industria miliardaria, a cui attingono politici e le maggiori istituzioni scientifiche.
L’aborto non si limita ad uccidere il figlio concepito e a lasciare nella donna pesanti conseguenze sulla salute fisica e psichica, l’aborto colpisce anche il padre del bambino abortito, intaccandone l’essenza della mascolinità, e provocandogli conseguenze psicologiche varie, anche gravi. L’altro obiettivo che la legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza doveva raggiungere, era quello di tutelare la salute fisica e psichica della donna posta di fronte ad una gravidanza indesiderata, e dai pericoli a cui costei sarebbe andata incontro nel sottoporsi ad un aborto casalingo fai-da-te o clandestino. Peccato però che, anche in questo caso, le cose non sono andate come previsto: la 194 non ha fallito unicamente il proposito di cancellare l’aborto clandestino, ma anche quello di tutelare la salute della donna perché, il tanto propagandato aborto sicuro, cioè senza conseguenze sulla salute, in realtà non esiste. La motivazione principale che ha portato alla giustificazione della legalizzazione dell’interruzione volontaria della gravidanza è stata quella di porre fine al fenomeno dell’aborto clandestino. Attraverso una campagna mediatica esasperante e assillante, la legalizzazione fu presentata come il “male minore” di fronte al “male maggiore” di milioni di aborti clandestini e migliaia di donne che morivano a causa delle “mammane” (numeri artatamente falsificati[1]). Una donna che non vuole tenere il suo bambino, troverà comunque il modo di abortire – dicevano i promotori della legge -, e allora tanto vale fare in modo che ciò avvenga in sicurezza e condizioni igieniche adeguate in ospedale. Legalizzare l’aborto avrebbe così permesso di cancellare l’aborto illegale e i suoi pericoli e - attraverso la pratica assistita negli ospedali -, tutelare la salute e la vita delle donne. Negli Stati dove l’eutanasia e/o il suicidio assistito sono stati introdotti, non si è assistito unicamente all’innescarsi del meccanismo del piano inclinato, mediante il quale i confini per l’accesso alle pratiche eutanasiche si sono nel tempo progressivamente ampliati, ma si sono verificate anche altre pericolose conseguenze. L’aspetto che immediatamente salta agli occhi è l’aumento incredibile del numero di persone che, negli anni seguenti all’introduzione, sono state sottoposte a tali pratiche. Un fatto, questo, che sconfessa appieno quanto propagandano dagli alfieri della morte autodeterminata, secondo i quali la legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito non condurrebbe a derive sociali, ad incoraggiare cioè un numero più alto di malati e sofferenti a domandare la morte anticipata. Riporto una riflessione sulla coscienza che ho estratto dal saggio “L’elogio della coscienza. La verità interroga il cuore” (Cantagalli, 2009) di Benedetto XVI.
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