Tavolo di Lavoro sul dopo-coronavirus
L’epidemia di coronavirus ha dimostrato, semmai ce ne fosse ancora bisogno, quanto la questione dell’aborto indotto e, nello specifico, la tutela della salute psicofisica della donna, sia una questione ideologica.
L’emergenza coronavirus
Il nuovo coronavirus (Covid-19), per il fatto di aver colpito contemporaneamente un numero molto elevato di persone, ha determinato una grave emergenza sanitaria che ha comportato la necessità di incrementare con urgenza i posti letto in terapia intensiva, il personale medico per la cura dei pazienti colpiti, le risorse economiche per presidi e dispositivi medici.
Il bisogno di liberare spazio e risorse mediche, per fronteggiare l’emergenza, ha avuto come conseguenza l’interruzione o il rinvio di molti servizi e attività non essenziali o urgenti, erogati dal Sistema Sanitario Nazionale, e “la rimodulazione dell’attività chirurgica elettiva”, ovvero di quella chirurgia non urgente, programmabile come ad esempio gli interventi di protesi all’anca e al ginocchio, di alcuni interventi oncologici che non comportino rischi per il malato, le operazioni per la cataratta, per l’ernia inguinale, per togliere i nei, ecc.
Facendo seguito alle disposizioni del Ministero della Salute, le Regioni si sono subito attivate con la rimodulazione: il Piemonte ha sospeso tutta l’attività chirurgica ordinaria e ogni intervento sanitario che richieda l’utilizzo della sala operatoria, a esclusione degli interventi urgenti, salvavita e oncologici; la Campania ha fermato tutte le attività ambulatoriali, garantendo solo le prestazioni motivate “da urgenza” e la “dialisi, radioterapia e chemioterapia”; la Toscana ha ridotto l’attività chirurgica del 25%; in Veneto, l’ospedale di Padova ha ridotto le attività programmate che utilizzano rianimazione, anche in oncologia, del 50%; prestazioni sono state rimandate in diverse strutture dell’Emilia Romagna e delle restanti Regioni italiane[1].