L’arretratezza italiana nei confronti della “cultura della donazione” veniva evidenziata l’11 ottobre 2014, in un articolo del giornale digitale Linkiesta[1], da Laura Rienzi - presidente della Società italiana embriologia riproduzione e ricerca (Sierr) -: “In Italia manca completamente la cultura della donazione perché nessuno ha mai chiesto ai giovani di donare il proprio seme o ovocita”. Rispetto agli altri Paesi – aggiungeva Rienzi - “noi siamo indietro di almeno 10 anni”.
Il successivo 12 novembre, dalle colonne del Corriere della sera[3], la ginecologa Alessandra Vucetich, esperta in tecniche di fecondazione assistita - riferendosi alle possibili alternative per sopperire alla mancanza di ovociti (social egg freezing, gametes crossing, egg sharing) - sintetizzava: “Sono tutte soluzioni messe in campo per aggirare il vero problema. Non abbiamo una cultura della donazione”.
Insomma, le italiane non donano, appaiono riluttanti a condividere la propria riserva di uova fresche, difettano di altruismo, in fatto di generosità e senso del dono devono recuperare un gap di dieci anni nei confronti delle coetanee straniere.
Questa emergenza culturale italiana ci preoccupa e ci interpella a dare il nostro contributo, affinché le donne fertili italiane possano colmare quanto prima questo divario poco lusinghiero. Per questo motivo - considerando il fatto che l’esempio personale vale più di mille parole -, mostreremo loro alcune testimonianze di giovani donne che hanno donato. Potranno così accorgersi di quanto appagante sia entrare nell’ottica della “cultura della donazione” e, emulando la loro abnegazione e generosità, avranno la possibilità di scrollarsi di dosso l’infamia di arretratezza culturale e avarizia che oggi le contraddistingue.
Le studentesse raccontano che il loro reclutamento non avviene solo con l’offerta di denaro ma anche facendo leva sulla filantropia: “Non ti convincono solo con i soldi, ma con ragioni umanitarie”. Le ragioni umanitarie non sono altro che un’espressione della “cultura della donazione”: le ragazze vengono spinte a donare gli ovuli persuase dal fatto che compiranno un gesto benefico; che il loro “dono” aiuterà una coppia sterile a realizzare il sogno di avere un bambino; che la propria bontà permetterà ad una coppia sfortunata di coronare il proprio desiderio di genitorialità. La donazione viene presentata come una missione umanitaria, come un dovere: “Mentre soffrivo per i trattamenti di stimolazione ovarica, per andare avanti, mi ripetevo: «questo è mio dovere, questo è mio dovere»”, spiega una ragazza nel filmato.
“I 6.500 dollari che mi hanno dato sono svaniti da tempo a causa delle cure mediche e delle complicazioni tardive causate dall’incidente. Ho sviluppato un’infezione all’interno della zona d’incisione che ha richiesto iniezioni multiple di steroidi per bloccarne la crescita fuori controllo. Ho sofferto di stress post traumatico per mesi a causa dell’incidente in cui ho rischiato la vita, e per due mesi non sono riuscita a lavorare a causa del crollo fisico e mentale. Qualche anno più tardi ho scoperto che il ciclo mestruale e i livelli ormonali, prima normali, erano diventati irregolari. E che le ovaie, anch’esse in precedenza normali, avevano assunto un aspetto policistico con più di 25 piccoli follicoli in ciascun ovaio. Ho sviluppato incontinenza occasionale e dolore pelvico a causa delle aderenze interne provocate dall’intervento chirurgico d’emergenza. Ma la cosa peggiore in tutto questo, è la mia lotta tuttora in corso contro l’infertilità”.
“Quando il medico vide il mio addome dilatato, sbiancò. Trenta minuti dopo ero in sala operatoria per l’espianto dell’ovaio destro che si era ingrossato quanto un pompelmo, andandosi ad attorcigliare alla tuba di Falloppio. Ho avuto un’infezione che stava andando in peritonite e ho perso molto sangue. Sono dovuta rimanere in ospedale per due settimane a causa di un’ostruzione intestinale…”.
“Quello che mi lascia senza parole – osserva la giovane – è che se non avessi insistito per farmi visitare, sarei morta. Hanno riconosciuto il problema solo dopo tre visite e venti giorni di dolori consecutivi. Ma non è finita qui. In seguito ho avuto gravi problemi all’intestino. Ho perso dodici chili e ci sono voluti mesi affinché mi ristabilissi”.
“Avevo solo 34 anni… Ho subìto una mastectomia, quattro mesi di chemioterapia, seguiti da altri tre interventi e 28 giorni di trattamenti radioterapici. Pochi mesi dopo la radioterapia ho subìto un’altra mastectomia. Ora non ci sono più segni di cancro, tuttavia a soli 36 anni ho perso entrambi i seni… Anche se sono sopravvissuta, i medici mi hanno detto che la chemioterapia ha reso sterile l’unico ovaio che mi era rimasto e che non sarò in grado di avere figli… Sono convinta che vendere gli ovuli abbia contribuito a far sviluppare il tumore al seno… La donazione mi ha fatto molto male”.
Calla, come le altre studentesse americane, è viva per miracolo. In seguito ha dovuto spendere almeno 100mila dollari in cure mediche per rimediare ai danni subiti, cure che non le hanno però restituito la salute di prima. Oltre al fatto di ritrovarsi con dei danni permanenti a causa dell’ictus, la giovane ha per sempre compromesso anche la capacità di procreare:
“Cosa dire, se non che non potrò mai più avere un figlio?”, è il doloroso verdetto finale della sua esperienza di donatrice di ovuli.
“È morta a 34 anni, era una compositrice di musica classica, avrebbe potuto fare tanto. Ma ora non c’è più”.
Le italiane possono trarre molti spunti di riflessione per sanare il decennale gap culturale, anche dalle donne dell’est Europa, per esempio, le ucraine. Costoro hanno ben radicata in sé la “cultura della donazione”, tanto che non esitano a sottoporsi a donazioni ripetute e frequenti per il bene delle coppie inglesi ricche ma sfortunate.
Nel 2006, il periodico britannico The Observer (settimanale domenicale del Guardian), ha realizzato un lungo articolo[5] sulle dinamiche di donazione in questo Paese, con interviste ad alcune “donatrici”. Sono così felici di far sapere al mondo quanto sono state buone e generose, che nelle interviste l’Observer è costretto a usare solo nomi di fantasia.
Svetlana accetta di raccontare la sua storia in segreto, non vuole che qualcuno la riconosca mentre parla con un giornalista, visto che non ha mai rivelato a nessuno, nemmeno al marito, che ha venduto gli ovuli per soldi.
Dopo la nascita del secondo figlio, ed il marito disoccupato, era alla disperata ricerca di denaro. Aveva quindi contattato una delle cliniche per la fertilità di Kiev chiedendo un impiego presso la mensa ma, invece di un lavoro, le hanno offerto 300 dollari in cambio di una donazione di ovociti. Svetlana ha “donato” più volte, andando incontro anche ai gravi rischi connessi all’iperstimolazione ovarica, quando alla quinta donazione le sue ovaie hanno prodotto 40 ovuli sani (la media è 10). Nonostante ciò, i problemi più grossi di cui la donna si lamenta, che non cessano di tormentarla nell’intimo, non sono di natura fisica, ma psicologica:
“Mi sento come se avessi venduto una parte del mio corpo. Nessuno deve sapere che mi sono venduta per denaro. Molta gente non lo capirebbe”, confessa.
“Potrebbero essere due ora, ma non ci voglio pensare. Spero non assomiglino a me. I miei due figli sono uguali al padre, spero sia così anche in questo caso”.
Le remore di Svetlana ci fanno sorgere il sospetto che “donare” gli ovociti non sia lo stesso che donare il sangue o il midollo osseo. E il discorso “figli” ci fa pensare che, l’“ovulo” dato in dono vent’anni prima, potrebbe un giorno, a sorpresa, presentarsi alla porta di casa tua perché ti vuole conoscere. Ma sorvoliamo sull’argomento, non vorremmo frenare l’entusiasmo delle italiane verso la “cultura della donazione” proprio mentre stiamo cercando di convincerle ad entrare in quest’ottica. Così andiamo avanti, passando alla testimonianza di Erena.
Erena racconta di aver “donato” già quattro volte, e dice di conoscere almeno altre venti giovani che hanno fatto la stessa cosa nella clinica della sua città. “Lo abbiamo fatto solo per soldi”, ammette. Poi esprime al giornalista le belle sensazioni che il suo nobile gesto le ha lasciato, affermando che la pratica a cui si è ripetutamente sottoposta le è sembrata più |
“un allevamento di galline ovaiole, che una donazione di ovuli”, e che si è sentita trattata come una “mucca da mungere”.
Lo stesso consiglio ci permettiamo di rivolgere a lorsignori della Corte Costituzionale, l’esempio che riuscirete a suscitare permetterà all’incoercibile diritto al figlio delle coppie sterili, di non rimanere solo una sentenza scritta sulla carta.
Quando anche le donne italiane avranno imparato in prima persona cos’è la donazione di ovuli, sapranno chi devono ringraziare.
Note:
[2] Monica Soldano, “Il business dei figli venuti dal freddo”, La Repubblica, 30 ottobre 2014.
[3] Simona Ravizza, “In Italia mancano le donatrici per la fecondazione eterologa. Gli ospedali chiedono all’estero”, Corriere della Sera, 12 novembre 2014.
[4] Altre testimonianze (oltre a quelle citate) di donne che si sono ammalate, e alcune poi sono morte, a seguito della donazione di ovuli, sono elencate al seguente link: www.humanebiotech.com/eggdonorsproject/considerthesewomen.html.
[5] Antony Barnett, “Cruel cost of the human egg trade”, The Observer, 30 aprile 2006, www.guardian.co.uk.