Ma, data la profonda interconnessione tra i due, se manca l’uno ne risente anche l’altra, l’assenza di silenzio danneggia la parola, le fa perdere tutto il suo valore: “Sparito il silenzio, siamo rimasti solo con le parole. E ci manca, appunto, la parola. Quando imperversano le parole, quando manca il silenzio, c’è confusione. Le parole senza silenzio, invece di ‘rivelare’, ‘velano’, ingombrano, ingannano, costituiscono un diaframma opaco, insuperabile. Nessuno più si fida di esse”.
Il Silenzio, quindi, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, “non è disamore, disprezzo della parola, fuga dal linguaggio” bensì “rifiuto della parola anonima, irresponsabile, impersonale, superficiale, meccanica. Il silenzio, piuttosto, dice amore per la parola originaria, viva, feconda, nuova, sorprendente. Più che rigetto del linguaggio, il silenzio è rivalutazione della parola. Chi ama il silenzio, ama anche la parola essenziale. Chi ha disinparato il silenzio, ha disinparato a parlare. Chi non conosce ‘lunghi silenzi luminosi’, non riuscirà mai a illuminare con la parola. Alla morte del silenzio, segue inevitabilmente la morte della parola. La parola vera non rompe il silenzio, ma procede da esso, lo esprime e in esso ritorna”. Il silenzio è la virtù che dà rilievo alla parola.
Olivera scrive: “Se le parole non fossero intercalate da spazi di silenzio, non sarebbe possibile né il linguaggio né un discorso intellegibile. Il silenzio è la matrice che dà forma alle parole e permette a esse di comunicare un messaggio carico di significato. Qualsiasi parola valida e significativa emerge da uno sfondo di silenzio. Il silenzio è il grembo della parola, il luogo in cui essa viene generata, se vuol essere portatrice di vita. La parola che ha raggiunto la sua meta, torna al silenzio da cui è nata: parola e silenzio coesistono. Il silenzio è parola, in quanto è comunicazione”.
E, con parole analoghe, Padre Giovanni Cucci, citando P.H. Kolvenbach, osserva: “Silenzio e parola sono parti inseparabili della comunicazione. All’interno del dialogo il fatto di tacere è altrettanto significativo quanto quello di parlare. Come il silenzio si oppone al mutismo, così la parola si oppone a tutte le forme di eccesso di parole che impediscono anch’esse il dialogo. Ogni parola proviene dal silenzio e vi fa ritorno”. E ancora: “La comunicazione è autentica quando nasce dal silenzio e sa rispettare il silenzio, il mistero inesprimibile che ci costituisce”.
Senza silenzio non c’è ascolto, e senza ascolto non c’è dialogo
Se tutti parlano non c’è dialogo, ma confusione. Un’immagine eloquente di questa confusione la possiamo incontrare durante i talk show televisivi o le tribune politiche, quando nello svolgersi del dibattito i partecipanti si ritrovano improvvisamente a parlare tutti insieme, magari anche alzando la voce per sovrastare quella degli altri: non si capisce più niente, si sente solo un rumore irritante, insopportabile, che percuote l’orecchio e ti spinge a cambiare canale, costringendo il presentatore a zittire tutti per evitare un crollo dell’audience.
Mauro Miccio individua proprio nella capacità di ascolto la caratteristica che fa di un comunicatore un buon comunicatore: “La vita di un buon comunicatore deve essere per tre quarti dedicata a capire, prima di elaborare una sintesi anche tra messaggi contrastanti”. Miccio, spiega: “Il valore che il silenzio oggi ha assunto è ancora più forte. C’è in quello spazio-vuoto, breve o lungo che sia, la possibilità di ragionare, di introiettare quanto arriva dall’esterno, ambiente compreso. Assume, perciò, grande rilievo nella complessità socio-economica del nostro tempo l’ascolto”. L’ascolto “ci consente di capire meglio chi è il nostro interlocutore, di interpretare quanto sta accadendo. Saper ascoltare consente di mettere insieme i dati che noi dobbiamo avere prima di attivare qualunque processo di comunicazione”.
Dom Olivera scrive: “Chi non è capace di vivere nella solitudine, vivrà male nella comunione e chi sa stare in silenzio, ascolta e parla meglio”. E spiega che silenzio significa accoglienza dell’altro: “Senza un silenzio che accoglie, non c’è possibilità alcuna di dialogo. Il silenzio che accoglie è segno di rispetto e di riconoscimento dell’altro. È un sì dato al prossimo, previo a qualsiasi altro sì o no a ciò che egli possa dire”. Questo silenzio accogliente discende dalla virtù teologale della carità: “Se amare è affermare l’altro, allora questo silenzio di accoglienza è un silenzio d’amore. Il silenzio è estasi d’amore, a volte tace, ma sempre ascolta, crea ambiti di comunione e di dialogo”.
Un vuoto che rimbomba
Perché, dunque, questo continuo bisogno di vivere in mezzo al rumore? Perché – risponde Pronzato – “il silenzio fa paura, non lascia dormire, mette addosso i brividi. Obbliga a fare conti inquietanti con se stessi. Costringe ad ascoltare gli atti d’accusa di una coscienza troppo spesso disattesa. L’assenza di silenzio è segno inequivocabile del vuoto che domina incontrastato. Raccontava padre David Maria Turoldo: «Quando io ero piccolo, c’era la banda del paese e c’era un tamburo grande che faceva: bum! bum! bum! e c’era un tamburo piccolo che faceva bim! bim! bim! E io non riuscivo mai a capire perché li chiamassero tutti e due ‘tamburo’: uno facevo un rumore piccolo e l’altro faceva un rumore grande. Qual era la differenza? La differenza stava semplicemente nel fatto che uno aveva un vuoto più grande e l’altro un vuoto più piccolo… Uno, più fa chiasso, più vuol dire che ha vuoto dentro»”.
Fare i conti con il silenzio, il vuoto, la solitudine, il deserto, può intimorire, ma di certo ne vale la pena: in quel vuoto potremmo incontrare Dio, scoprire che in realtà, pur nella solitudine, non siamo soli, e dopo averlo incontrato anche le nostre relazioni con gli altri miglioreranno. Cucci scrive: “L’esperienza della solitudine, con la sua sofferenza, mostra la nostra situazione esistenziale di povertà, di incapacità a colmare il cuore vuoto; la sofferenza che essa comporta, se riconosciuta ed accolta come un elemento caratteristico di creaturalità e non come una maledizione, può anch’essa costituire un segno importante… nella relazione con il Signore, perchè si è giunti a riconoscere che senza di Lui la vita diventa insopportabile e senza senso. La dimensione essenziale che ogni uomo sperimenta nella solitudine è dunque segno di un’intimità che va custodita e rispettata”. Quindi, riportando le parole di T. Radcliffe, Cucci aggiunge: “La più profonda verità su noi stessi è che non siamo soli. Nel punto più profondo del mio essere c’è Dio, che mi dona l’abbondanza della vita. Se riusciamo a entrare in questo deserto e a incontrarvi Dio, diverremo liberi di amare disinteressatamente, liberamente, senza dominare o plagiare. Saremo in grado di vedere gli altri non come una soluzione alle nostre esigenze o una risposta alla solitudine che ci tormenta, ma soltanto per gioire della loro presenza”.
Senza silenzio non c’è vita interiore
La voce di Dio che ci parla si sente solo nel silenzio. Se vogliamo conoscere il progetto di Dio su di noi, la sua risposta a un problema che ci assilla o, semplicemente, se vogliamo percepire l’amore che nutre per noi, dobbiamo predisporci all’ascolto nel silenzio. Suor Marisa Bisi, della Congregazione delle “Figlie della Croce”, scrive: “Ci sono delle realtà per conoscere le quali bisogna rendere attiva la mente, ce ne sono altre per conoscere le quali la mente deve farsi umile e silenziosa. Dio nella sua natura profonda è una di queste realtà che vanno avvicinate con la mente congiunta al cuore silenzioso”. E ancora: “Per non sbagliare pista nel cammino della vita è necessario vestirsi di silenzio. L’uomo e la donna sono oggi ammalati di chiasso, rumori, parole che stancano, esasperano, feriscono; parole invecchiate, logorate, ripetute per moda e convenienza, parole prive di luce e freschezza. È invece nel silenzio lo spazio fecondo nel quale viene generata la Parola bella che fa bene. Nel silenzio si sente l’anima cantare, il contatto con le varie realtà della vita si fa più semplice, più bello, più vero, gioioso e misterioso; si arriva in un modo più sicuro all’appuntamento con noi stessi, con Dio, con gli altri”.
Cucci scrive: “Accettare la propria solitudine significa essere diventati amici di se stessi e solo in questo modo diventa possibile essere amici di un altro. Alcuni istanti di silenzio sono così intensi e forti che sembrano durare un’eternità e segnano per sempre. Essi rivelano la nostra natura spirituale, perché in questi momenti sembra rendersi presente l’eternità”.
Silenzio non è solo assenza di rumori, di suoni o di parole, ma – spiega il trappista – “anche evitare di agire nell’agitazione e nell’esagerazione che turbano l’anima”. L’assenza di silenzio esterno è quindi una condizione indispensabile per coltivare la propria vita interiore, ma esso non è sufficiente: serve anche il silenzio interiore. In che cosa consiste il silenzio interiore? Olivera lo spiega così: “Saper effettivamente controllare l’immaginazione e la memoria è una prima esperienza di silenzio. L’amore vigile, che si libera da tutto ciò che è eccessivamente carico di emozione e di passione e che non conduce né a Dio né al prossimo, consente di entrare in un silenzio ancora più profondo. Quando l’intelletto tace, la verità s’impone; ma solo quando la volontà aderisce a Dio, si conosce il silenzio mistico o il silenzio di Dio… Il silenzio è la porta di accesso a realtà più affascinanti e di grande valore”.
Parole parlate e parole parlanti
Da quali “parole parlate” iniziare per rimettere al centro la virtù della parola, per darle nuovamente il posto che merita di avere? Intanto, partendo dalle parole “più modeste e trascurate, dalle umili faticatrici, senza troppe pretese”, come “gentilezza, buonsenso, rispetto, bontà, perdono, delicatezza, mansuetudine, tenerezza, onestà, sacrificio, fedeltà, pazienza, preparazione, sincerità, sensibilità, semplicità, educazione, garbo, sopportazione, pulizia, attenzione…”. E poi, dopo avere evocate, iniziare semplicemente a metterle in pratica: “Cosa ne faremo, dopo averle risvegliate, purificate in un lungo, benefico bagno di silenzio? Chiederemo loro di aiutarci a compiere la nostra piccola rivoluzione quotidiana”, partendo dal “cambiare, trasformare, sistemare qualcosa nei pressi di casa nostra, prima di tutto. Poi, chissà, forse ci arrischieremo un poco più in là, passo dopo passo. Naturalmente non lasceremo le parole a lavorare da sole. Ci impegneremo a viverle. O, più semplicemente, a fare ciò che dicono”.
Anche Miccio parla della necessità di ridare significato alle parole, prendendo atto del fatto che ogni parola non è neutra, ma è anche pensiero, contenuto, espressione di una realtà, che implica assunzione di responsabilità per ciò che si dice, comunica, risponde. Egli scrive: “È necessario riscoprire il nesso culturale che sta dietro e dentro il linguaggio, ridando senso alle parole. Le singole parole si sono sempre più allontanate dai concetti che sottendono, perdendo le radici e la logica originaria. Se riprendiamo le prime frasi del Vangelo di Giovanni: «In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio, il Verbo era Dio», nella versione greca il termine logos, più che il latino tardo verbum, tradotto ‘verbo’, rende l’essenza stessa del comunicatore: logos è pensiero e parola insieme, contenuto e forma; ritorniamo così a dare senso al nostro dialogo (dià-logos): attraverso le parole passano i contenuti”. Pertanto, colui che comunica – continua Miccio - “è un attento analista della realtà” consapevole del fatto che la parola ha un valore, che “quanto si dice ha un fine e un significato chiaro e puntuale”. Non sono solo i fatti a esigere senso di responsabilità, ma anche le parole. Come ogni atto e azione umana implica assunzione di responsabilità, così il parlare, il dialogare, il rispondere (res-pondere). Implica cioè di portare il peso di ciò che si dice, di sostenere l’onere delle parole proferite, di trasmettere la realtà, la verità, ciò che è e non ciò che si vorrebbe che fosse o far credere, come avviene per esempio con l’inganno del linguaggio politically correct che deformando le parole e i concetti deforma anche la realtà. “Torniamo a una vera responsabilità di chi comunica”, esorta Miccio.
Disarmare e sorvegliare la lingua
Cattiveria e violenza verbale inquinano, quindi, la parola. In che modo? “Facciamo largo consumo di parole aggressive, pungenti, offensive, taglienti – spiega Pronzato -. Parole dure come sassi, e quindi indigeribili. Teniamo ampie riserve di parole che umiliano, parole di condanna, parole che graffiano, ammaccano e feriscono”, parole che mentre sconsacrano la parola, rovinano la vita di chi ci sta vicino e anche la nostra. Occorre perciò prendere atto del fatto che la virtù della carità riguarda anche il linguaggio, da qui la necessità di “riportare nella nostra bocca il vocabolario della carità”. In che modo? Tornando a “usare parole di ‘incoraggiamento’, nella consapevolezza che ‘incoraggiare’ significa ‘dare cuore’ alle persone, restituire fiato e speranza a chi è avvilito. Urge ‘disarmare’ la nostra bocca, riconvertirla in strumento di pace, dolcezza, tenerezza… sarà il caso di convincerci, finalmente, che tra le opere della bontà ci sono anche le parole”.
Le caratteristiche che contraddistinguono un maldicente – continua Pronzato - sono essenzialmente tre. Come prima cosa v’è da rilevare che “in ogni maldicente c’è un giudice o addirittura un giustiziere. Ma è un giudice non imparziale. Non si preoccupa di controllare, verificare, vagliare serenamente le prove, sentire l’accusato. Il desiderio di condannare risulta prevalente su tutto”. Poi “ogni maldicente coltiva più o meno segretamente la vocazione di psicologo. Uno psicologo da strapazzo, che però si ritiene infallibile, e non accetta di rimettere in discussione le affermazioni fatte, le sentenze pronunciate, le diagnosi formulate. Non è disposto a riconoscere gli errori, anche quelli più marchiani, rinunciare ai pregiudizi, prendere atto delle smentite della realtà. E lo stupido, il superficiale, è uno psicologo ancora più ‘infallibile’. Pericolosissimi, poi, quelli che dicono: ‘A me basta l’istinto, l’intuizione”. Infine, il maldicente “è consapevole della propria piccolezza, meschinità, bassezza. E prova il bisogno di giustificarsi, non tentando di innalzarsi almeno un poco (troppo faticoso, e poi c’è il rischio di cadere), non correggendosi (è un affare eccessivamente impegnativo e serio), ma abbassando gli altri al proprio livello e anche più sotto. La maldicenza è una consolazione della mediocrità. Dunque, ecco la compensazione, la taglia imposta a chi ‘ha’ di più, a chi ‘è’ di più. La maldicenza è sempre segno evidente di insoddisfazione, disgusto di sé, proiettato sugli altri”.
Come si può vedere, se usata in modo sbagliato o con la volontà deliberata di nuocere al prossimo, la parola può essere letale, distruttiva, micidiale. La parola “possiede una forza e una pericolosità straordinarie: può edificare ma anche demolire, ricucire ma anche dividere, incoraggiare ma anche spegnere… La lingua, quando è mossa dalla volontà di fare del male, dalla menzogna e dall’invidia, possiede un potere infernale: devasta tutto ciò che incontra, semina rovina. E i danni sono irreparabili”. Ci sono rapporti irrimediabilmente compromessi per una frase sbagliata detta con superficialità. Famiglie divise, faide tra parenti, amici che non si parlano da anni per una parola uscita dalla bocca sotto l’impeto dell’ira, dell’invidia o dalla volontà di prevalere sull’altro. Persone e relazioni rovinate dalla calunnia e dalla faciloneria. Bisogna perciò reimparare la virtù della parola anche allenandosi a sorvegliare la lingua e a disarmarla il prima possibile qualora dovesse diventare improvvisamente bellicosa. Come? Lo abbiamo già detto: innanzitutto con un immediato e salutare bagno di silenzio.
Questa volgarità dilagante, oltre che profanazione del linguaggio, è anche il sintomo del fatto che nel nostro tempo si sia smarrita, e debba perciò essere riscoperta, anche la virtù della dolcezza che - scrive Pronzato – “non va confusa con le sdolcinature, che ne rappresentano la contraffazione” né “con le parole mielate”. La dolcezza è in realtà “una parente stretta della mitezza, entrata con tutti gli onori nel quadro delle beatitudini evangeliche, è una espressione di forza e presuppone la forza. La dolcezza è una forza dominata. I violenti, i prepotenti, i villani, gli arroganti, in realtà sono dei deboli. Le resistenze più ostinate si piegano con la forza della dolcezza. Così come le ferite profonde si possono rimarginare con le carezze della bocca”. E prosegue: “La dolcezza è qualcosa di profondo, non di esteriore. Proviene da un animo ‘pacificato’, da un essere in armonia, prima di tutto, con se stesso. Resta il fatto che non c’è carità senza dolcezza, gentilezza, sensibilità, delicatezza, amabilità, finezza, garbo… Quando il linguaggio viene pervertito, violentato, prostituito, allo scopo di offendere, insultare, disprezzare, si commette un duplice, grave abuso: verso il linguaggio stesso e verso le persone oggetto e anche soltanto ‘ascoltatrici’ di certe intemperanze verbali e immancabili espressioni oscene”.
Sì, impegniamoci a rendere la nostra società veramente “trasgressiva”, riportiamo un po’ di sana “trasgressività” nelle nostre famiglie, nel gruppo degli amici, a scuola, sul luogo di lavoro, nei nostri rapporti interpersonali: recuperiamo le virtù del silenzio e della parola!
Bibliografia
Mauro Miccio, La torre di Babele, Sperling & Kupfer, 2002, pp. 9-11, 13.
Bernardo Olivera, Parole dal silenzio, Ancora, Milano, 1999, pp. 103, 108-111, 113, 114-118.
Giorgio Basadonna, …e pace in terra, Ancora, Milano, 2002, pp. 17-19.
Marisa Bisi, La Bellezza via di Salvezza, Edizioni AdP, Roma, settembre 2003, pp. 9, 35.
Giovanni Cucci, La forza della debolezza, Edizioni AdP, Roma, luglio 2007, pp. 302, 303, 308.