La parola “costringere” implica infatti intimidazione, aggressività, violenza, e la tragica ironia è che l’aggressività, la violenza e il comportamento minaccioso non provengono dalle persone pro-life, ma dai medici che uccidono i bambini.
La posizione dei pro-life è molto semplice: non si uccidono le persone, gli embrioni sono piccolissime persone, pertanto non si uccidono gli embrioni. È una cosa diretta, immediata, non è un concetto difficile da capire.
Poi, è certamente vero che dicendo “non uccidere l’embrione”, ne conseguiranno altre cose, come dover affrontare la gravidanza, partorire e poi crescere il figlio o darlo in adozione ad altri che lo cresceranno. Ma questo non significa “costringere” qualcuna a fare queste cose. Se ti sembra che io stia facendo solo giochetti semantici – aggiunge Brahm – considera il seguente caso. A questo punto, Brahm, come ci ha spiegato nel precedente articolo, provvede a stimolare la riflessione creando una situazione parallela, cambiando cioè il punto di vista mediante una “rotazione del tavolo”:
Molly ha un figlio di cinque anni, Jason, con bisogni speciali. Il padre del bambino non c’è. Molly non vuole più avere a che fare con le difficoltà di crescere un figlio disabile. Vuole avere la possibilità di uscire e di divertirsi, di viaggiare e di avere più vita sociale. Così elabora un piano per uccidere Jason, in modo che la sua morte appaia avvenuta per cause naturali. Molly confida nell’appoggio della sua amica Debbie per la realizzazione del piano, ma quando costei obietta che sarebbe immorale uccidere il bambino, Molly s’infuria:
Molly: “Quindi stai cercando di costringermi a crescere un bambino? Vuoi obbligarmi a prendermi cura di un figlio disabile contro la mia volontà? Vuoi costringermi a fare la madre? Vuoi costringermi ad avere una vita difficile? Vuoi che io non mi laurei? Vuoi costringermi a rinunciare ai miei sogni?”.
Debbie: “No, non sto dicendo niente di tutto questo, ma solo che potresti darlo in adozione o qualcosa del genere”.
Molly: “Così vuoi costringermi ad abbandonarlo per darlo in adozione? Mi costringerai ad affrontare qualcosa di emotivamente difficile? Mi costringerai a chiedermi per tutta la vita dove egli sia e a sentirmi colpevole per averlo abbandonato? Ma che razza di amica sei?”.
La retorica pro-choice usa queste frasi ambigue che inconsciamente richiamano alla mente questi comportamenti riprovevoli e chiaramente da condannare, come se essi fossero moralmente paragonabili alla questione dell’aborto volontario. Credo che molte persone pro-choice neanche si rendano conto di stare facendo tali confronti sleali. Sembra, in un certo senso, di trovarsi di fronte a quei casi in cui una determinata affermazione ci appare giusta e poi finiamo per affezionarci a essa, continuando a ripeterla a pappagallo, senza pensare al significato di ciò che effettivamente diciamo. Tuttavia i confronti sleali ci sono e questa è una delle ragioni per cui questo linguaggio ha tutta questa forza retorica.
Dire “non uccidere” comporta delle conseguenze. Per Molly ciò significa avere una vita difficile. Per le donne che stanno prendendo in considerazione l’aborto significa una moltitudine di cose difficili, come dover lasciare il college, affrontare il dolore del parto, affrontare il dolore di dare il figlio in adozione o le difficoltà di crescerlo. Tuttavia, la persona che dice “uccidere è sbagliato” non sta costringendo le donne ad affrontare queste conseguenze, esattamente come chi dice “rapinare la banca è sbagliato” non sta costringendo colui che ha intenzione di fare la rapina a essere povero.
Credo che le persone pro-choice dovrebbero essere d’accordo con me sul fatto che sia sbagliato affermare che Debbie, rispondendo all’amica che è immorale uccidere il figlio, la stia costringendo a essere madre – conclude Brahm -, e se in quel caso il linguaggio usato è sbagliato, allora lo è anche nel caso dei pro-life e l’aborto.