UMORISMO
Le caratteristiche dell’umorismo
Nell’umorismo vi è perciò indubbiamente un elemento artistico “perché chi fa una battuta esprime ciò che in teoria era percepibile da tutti ma che di fatto viene colto soltanto da chi è dotato di questo sguardo, acuto e penetrante” mediante il quale riesce a “indicare la presenza di qualcosa di nuovo, inaspettato, eppure da sempre sotto gli occhi di tutti”. Ebbene, “questa capacità di rilevare qualcosa che altri non vedono è propria dell’artista, per questo l’umorismo presenta un legame forte con la creatività, l’arte e la genialità; in poche battute si elabora una briciola di sapienza, una piccola summa del sapere, una perla di saggezza”. Ma, creatività, genialità, sapienza, saggezza sono tutte caratteristiche che denotano anche intelligenza, per questo si può dire che anche quest’ultima rappresenti un elemento chiave dell’umorismo, infatti – osserva Cucci - la “capacità di penetrazione della realtà, mostra come l’intelligenza costituisca un aspetto essenziale dell’umorismo, perché è in grado di leggere tra le righe ciò che capita”.
Oltre all’elemento artistico, l’umorismo presenta inoltre un elemento “contestativo”, nei confronti di una situazione di cui si è scontenti o di chi ci ha deluso o fatto soffrire, ma non per denigrare, colpevolizzare, incriminare, bensì per trarne una sorta di consolazione personale, per ridimensionare l’accaduto e allentare la tensione. “Il rovesciamento della situazione data – scrive Cucci – costituisce anche una specie di rivoluzione auspicata sovvertendo uno stato di cose insoddisfacente”. Da questo punto di vista, “l’umorismo può essere considerato come una maniera alternativa di vedere il mondo e la vita, soprattutto di fronte a realtà che potrebbero preoccupare diventa un invito ad allentare lo stress”. Fare una battuta di spirito diventa così “un invito a sdrammatizzare le difficoltà della vita, o a prendersi una bonaria rivincita prendendo in giro chi ‘conta’ e ci ha fatto soffrire”. Non è un caso che – osserva Cucci – “la varietà più ricca di battute e storielle di genere umoristico appartenga alla cultura ebraica: si pensi alle storielle hiddish, ma anche ai proverbi biblici… Probabilmente è stata la particolare situazione di sofferenza e separazione che ha caratterizzato il popolo ebraico, uniti alla sua proverbiale genialità, a costituire uno stimolo in questo senso e forse anche una maniera di consolarsi”.
Equilibrio tra spontaneità e riflessività
Cucci spiega che l’umorismo è sicuramente caratterizzato da “una modalità offensiva, pungente, come accade nella satira”. Se la satira “è sfumata denota intelligenza e genialità, ma quando diventa grossolana e superficiale rasenta il volgare”, in questo caso l’equilibrio scema in “spontaneità isterica”, come direbbe Fry, cioè irritante, incontrollata, esaltata, labile… L’umorismo richiede perciò “una certa dose di immediatezza, di ‘lasciarsi andare’, ma non troppa!”. Ma l’umorismo scema anche se prevale l’opposto dell’immediatezza, cioè la riflessività, il controllo, l’eccessiva serietà: “Chi si controlla troppo, chi si osserva con troppa serietà, difficilmente trova motivi per sorridere”.
Chi prende tutto sul serio
Senza contare poi che un sano umorismo ha effetti benefici, non solo nei rapporti con gli altri, ma anche sulla propria salute mentale e fisica: “Il senso dell’umorismo contribuisce in modo importante anche all’equilibrio psichico della persona e giova alla salute fisica – scrive Cucci -. Di fatto il sorriso scaccia l’ansia e comporta precise reazioni somatiche nell’organismo, come l’aumento di dilatazione dei vasi sanguigni, con effetti sulla circolazione, sull’umore di fondo, sulla qualità delle relazioni, sulla vitalità in genere e perfino sulle malattie; l’ansia porta invece a reazioni esattamente opposte. Emerge di nuovo la medesima polarità: senso dell’umorismo ed elasticità da una parte, e serietà estrema, aggressività e rigidità dall’altra”. Essere provvisti di umorismo denota elasticità mentale e quindi anche capacità di mettersi in discussione e di cambiare, al contrario la persona priva di senso dell’umorismo, poco elastica, estremamente seria e rigida “vede le cose solo in una cornice di riferimento molto ristretta, e perciò non è capace di cambiare (G. Bateson ‘L’umorismo nella comunicazione umana’)”.
Umorismo e unicità della persona umana
Quindi, dal punto di vista antropologico – conclude Cucci -, l’umorismo risulta essere l’elemento più efficace per confutare la visione dualista dell’uomo che sostiene la separazione tra corpo e mente (anima), infatti, proprio “il riso, come manifestazione somatica e spirituale insieme, riassume efficacemente le relazioni tra la mente ed il corpo e ne mostra la stretta unità”. Da questa prospettiva “la capacità di ridere di fronte ad una battuta diventa così anche la smentita più efficace della concezione antropologica dualista che l’epoca moderna ha assunto come verità indiscutibile da Cartesio in poi”.
Imparare la virtù dell’umorismo ci permetterà di migliorare la nostra vita e quella di chi ci sta intorno, ma non solo, ne trarrà giovamento anche il nostro rapporto con Dio. “Questa fondamentale capacità di prendere le distanze e di padroneggiare un problema senza perdere il controllo di sé diventa anche un aiuto prezioso per la stessa relazione con Dio” osserva Cucci, mentre si appresta a sviluppare la profonda correlazione che intercorre tra umorismo e vita spirituale. A tale proposito egli osserva: “La persona che tende a drammatizzare tutto in fondo si crede il centro del mondo e ritiene che tutto sia affidato alle sue forze, e questo può avere conseguenze terribili, forse peggiori dei problemi che poi effettivamente capitano, perché toglie la speranza, che è il cuore ed il respiro della vita. Di fronte alle difficoltà è un atteggiamento saggio, invece di strapparsi le vesti, chiedere luce al Signore per imparare a vedere le cose come le vede Lui. Questo può essere l’aspetto educativo dell’umorismo di Dio”.
L’umorismo nella Bibbia
Non è infatti un caso che – nota Cucci – “nella Bibbia ci siano stretti collegamenti con l’umorismo: si pensi ai libri sapienziali, al racconto, al proverbio, alla creatività e all’intelligenza, al gusto e alla curiosità di sapere, tutte modalità volte a osservare il mondo con atteggiamento divertito, anche un po’ folle, e tuttavia estremamente sano dal punto di vista dell’equilibrio interiore e della capacità di vivere relazioni vere e profonde”.
Ma nella Bibbia – aggiunge Cucci - si trova anche un altro tipo di umorismo: “L’umorismo affabile e intelligente, che sa trovarsi a casa propria anche nei confronti di Dio. Questo sguardo di simpatia sul mondo nasce dalla consapevolezza riconosciuta della contingenza delle cose, portando allo stupore, cioè a non dare per scontata l’esistenza propria e degli altri esseri. E a sua volta lo stupore costituisce un sentimento fondamentale che si trova alla base dell’umorismo, ma anche della sapienza, della filosofia e della religione; infatti è proprio perché non siamo Dio che possiamo guardare al mondo con bonarietà e riconoscere una intelligenza più grande della nostra”. Per spiegare meglio questa sorta di umorismo affabile e intelligente, Cucci cita il seguente pensiero di L. Boros, (“Il Dio vicino”): “L’umorismo nasce dalla rassegnata consapevolezza che ogni realtà terrena è imperfetta. Ma tale rassegnazione sfocia a sua volta nella certezza che il finito è immerso nella grazia di Dio. Perciò l’umorismo si rivela come pietà e amore verso il mondo proprio là dove più chiaramente appare la sua insufficienza e stoltezza. Colui che ne è veramente dotato ama il mondo nonostante la sua imperfezione, anzi proprio in essa. L’amore che l’umorista ha per il mondo è gioia di esistere, riconoscenza a Dio per poter vivere in questo mondo imperfetto”.
Prendere atto della propria reale limitatezza e insufficienza, riconoscere che non è possibile fare affidamento solo sulle proprie forze e quindi capire di aver bisogno di Altro, può aprire le porte della fede. Cucci scrive: “La contingenza manifestata dall’umorismo, che evidenzia misteri ed enigmi, può così offrire una apertura alla fede, mettendo in ridicolo l’assurdità di una sapienza soltanto umana”.
Umorismo e vita spirituale
Riconoscere i propri limiti e difetti, prenderne atto con ironica comprensione è il primo passo per migliorarsi, per cambiare in meglio, infatti, “vivere la realtà con umorismo non è un modo di ignorare i problemi e le difficoltà, significa invece imparare a sdrammatizzarli, e questa è una condizione essenziale per affrontarli e superarli. Il riconoscimento dei propri limiti, quando è fatto con bonaria ironia, costituisce il primo passo fondamentale per accettarli e vivere diversamente… Una visione scanzonata di sé non porta necessariamente al lassismo, anzi è una maniera, come ricordava Molière, di notare il lato ridicolo dei propri vizi e dunque una spinta a correggersi”.
Umorismo, intelligenza ed umiltà – prosegue Cucci – “sono fra loro strettamente legati: non è un caso che il superbo, il narcisista, chi è pieno di sé, sia solitamente privo di senso dell’umorismo: tutto appare troppo serio per poterne sorridere. La figura-simbolo che il Vangelo pone continuamente sotto gli occhi è quella del fariseo, solitamente cupo, molto attento ad osservare la legge ma che non sa più godere della sua vita, smarrendo in questo modo anche il senso della stessa legge; la fatica che tutto questo gli costa lo lascia pieno di risentimento e di disprezzo per gli altri”. “La Bibbia – aggiunge Cucci - invita il credente ad imparare a ridere di se stesso, perché non deve avere paura delle proprie debolezze e miserie, egli è libero dalla preoccupazione di nasconderle, di apparire migliore di quello che è, libero dunque dal giudizio degli altri, dal vano orgoglio che tanto fa soffrire e impedisce di sorridere delle proprie piccinerie, mettendosi un vestito troppo stretto che non consente di respirare. L’umorismo è un segno di libertà e di verità verso se stessi, perché si è consapevoli che la propria stima viene da un Altro”.
L’umorismo, infine – conclude Cucci -, è “un ingrediente importante anche per l’equilibrio e l’efficacia apostolica: come potrebbe la gente credere alla buona notizia che è il Vangelo, quando coloro che lo proclamano mostrano sempre un volto triste e oppresso dai problemi? Coglie qui nel segno il sarcasmo pungente di Nietzsche, il quale, in ‘Così parlò Zarathustra’ critica i cristiani come nemici della vita e in fondo ipocriti, perché il loro volto triste mostra che in realtà essi non conoscono la gioia di cui parlano: ‘Bisognerebbe che essi mi cantassero dei canti migliori, perché io imparassi a credere nel loro Salvatore! Bisognerebbe che i suoi discepoli avessero più aria da gente salvata!’. La mancanza di umorismo e di gaiezza può diventare per il credente una controtestimonianza”. E noi, che testimonianza stiamo dando della nostra fede? Quella cupa e piena di sé del fariseo o quella gioiosa di salvati tipica dei santi?
FOLLIA
Trascendenza e fede
Se da una parte “l’assurdità sembra essere il luogo di negazione della logica della ragionevolezza del senso, e dunque un ritorno al caos che nega l’armonia della creazione”, dall’altro lato essa “può invece costituire una finestra che guarda ad un mondo differente, un mondo che, come nelle geometrie non euclidee o nello spazio a quattro dimensioni conosce altre leggi, che non si possono tra loro comparare; esse infatti mostrano un mondo che ‘funziona’ in un’altra maniera, con modalità tutte proprie ed espresse ad esempio, dalle pagine e dai gesti paradossali dei poeti, degli artisti, dei mistici, dei folli, dei santi”. Quindi, l’assurdo, “inteso come sordità della ragione, può certamente togliere possibilità alla vita di fede, può scandalizzare”, ma “se si ha il coraggio di entrare nel suo bizzarro universo” esso “può anche comportare un suo più profondo rimando” e indicare “un mondo ‘altro’, altro da quello della logica ferrea e seria del chiaro e distinto”.
A proposito della follia di Dio che si fa uomo per finire ucciso sulla croce e di tutti i pazzi della storia che si sono messi alla sua sequela, Olivier Clément, scrittore e teologo ortodosso, nell'introduzione a: Irina Goraïnoff, I Pazzi in Cristo nella tradizione Ortodossa (Ancora, Milano), scrive:
Il tema dell’amore “folle” di Dio affiora dovunque nel Nuovo Testamento. Se la creazione rivela la sapienza di Dio, l'incarnazione per la nostra salvezza rivela il suo amore pazzo per noi. Il Crocifisso per amore è il segreto di ogni follia. Il Dio incarnato discende nella morte per prendere tutti gli uomini nella follia del suo amore. Con gli occhi bendati, schiaffeggiato, schernito, coperto di sputi, rivestito di una porpora da beffa, coronato di spine, re per burla, ecce homo, ecce deus: un pazzo in verità!
Il "pazzo in Cristo" è l’uomo che risponde con tutto il suo essere alla follia di Dio, che entra anche lui nella «stoltezza della croce», che diventa pazzo per amore di Cristo. «Noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani» (1 Cor 1, 23). «Ciò che nel mondo è stolto, Dio l’ha scelto per confondere i sapienti» (1 Cor 1, 27). «Noi siamo stolti a causa di Cristo» (1 Cor 4, 10). Per questo «insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti» (1 Cor 4, 12-13).
Il pazzo in Cristo s’identifica con Cristo oltraggiato, crocifisso, eppure risorto: egli vive già nel Regno e denuncia l'orgoglio, l'odio e la menzogna di “questo mondo”. Prende alla lettera le Beatitudini e il Discorso della montagna, tutta quella insopportabile follia: la terra donata ai miti, la gioia ai perseguitati e I’ offrire la guancia sinistra quando siamo colpiti sulla destra, in tre parole: amare i nemici. Il pazzo in Cristo rivela possibile l’impossibilità del cristianesimo.
[…] il pazzo è il Cristo oltraggiato e, simultaneamente, il Risorto, libero da ogni compromesso col mondo, e «completa nella (sua) carne quello che manca ai patimenti di Cristo» (Col 1,24)
Il folle “comandamento nuovo” di Gesù
“L’amore per essere equilibrato ha bisogno di un pizzico di follia”, scrive Alessandro Pronzato, nel suo “Alla ricerca delle virtù perdute”. Sembra proprio un bel paradosso: come può una cosa squilibrata dare equilibrio a qualcos’altro? L’amore, scrive Pronzato, “si apparenta alla follia. Per amare veramente occorre uscir fuori di sé, rinunciare ad amministrare giudiziosamente la propria vita, smetterla di fare calcoli prudenti, e seguire una logica che non è quella del senso comune. Dice Michel Quoist: ‘L’amore è una strada a senso unico: parte sempre da te per andare verso gli altri. Ogni volta che prendi qualcosa o qualcuno per te, smetti di amare, perché smetti di dare. Cammini contromano’”.
Il contrario dell’amore, della carità, è l’egoismo: “L’egoista è precisamente uno che cammina contromano. Parte dagli altri per arrivare inevitabilmente e ostinatamente a sé. Gli altri non sono che un pretesto, un’occasione, un mezzo per amare se stesso. Sono in funzione del proprio io. Anche quando dichiara di fare del bene, l’egoista pensa a se stesso, intende fare del bene a se stesso. È totalmente occupato con se stesso”. L’egoista – continua Pronzato – “si rivela incapace di abbandonarsi, consegnarsi all’altro. L’egoista, perfino nell’amore, continua a ragionare in termini di interesse, vantaggi e piacere individuali. In altre parole: può essere disposto a tutto, meno che alla follia, meno che a perdere la testa, o la faccia”. Caratteristiche queste ultime che sono peculiari “nell’amore autentico” che, al contrario, comporta sempre “una componente di rischio, eccesso, esagerazione. L’egoista si protegge. Mentre l’amore comporta un ‘esporsi’ senza difese”. E ancora: “L’egoista si rivela costituzionalmente inadatto ad amare, anche allorché sembra travolto da una passione irrefrenabile, perché non è disposto a uscir fuori da sé (le sue ‘uscite’ sono programmate in modo da rientrare al più presto, e assicurarsi che i conti tornino, magari in termini di successo, popolarità), non accetta di perdere il controllo della situazione, non ha il coraggio di buttar via il registro della contabilità personale”.
È perciò nell’ottica dell’esagerazione, dell’eccesso, del “non abbastanza” che va interpretato il comandamento dell’amore di Gesù: “Il Signore – scrive Pronzato - esige dai suoi un amore ‘come’ il suo: eccessivo, prodigale, folle”. Quel “…Come io vi ho amato” significa che “io non posso amare ‘a modo mio’”, ma che “devo amare ‘al modo di Dio’. In una prospettiva specificamente cristiana, non basta amare l’altro come se stessi. Occorre amare come Cristo ha amato”. Significa cioè che “il nostro amore dev’essere come il suo: incandescente, bruciante. E universale, senza esclusioni né discriminazioni. Che abbracci anche quelli che non se lo meritano. Un amore non dipendente da gradimento o ripugnanze, e neppure condizionato dalla bontà o dalla cattiveria, dalla bellezza o dalla bruttezza, da simpatia o antipatia”.
Il “come” imposto da Cristo - spiega Pronzato -, è anch’esso una misura, la misura di una dismisura, una misura infinita: “Quel comparativo ci colloca in una vertiginosa ‘dismisura’. Ci troviamo confrontati con qualcosa che non ha misura. Per cui si tratta di adeguare le nostre misure, forzatamente ridotte, a una misura… infinita. La nostra misura sarà di non averne! In fatto di amore, il cristiano è nel giusto solo quando esagera, si mostra eccessivo”.
E, sempre a proposito del comandamento della carità, Pronzato prosegue: “Col ‘comandamento’, Gesù vuole qualcos’altro, che non può essere contenuto in una norma circonstanziata. Il comandamento dell’amore impone non il minimo, ma il massimo. Non fissa limiti, ma costituisce un invito a superare ogni misura, ad andare oltre. Si tratta di un atteggiamento di fondo, più che di comportamenti stabiliti una volta per sempre. Non qualcosa di previsto, programmato, scontato, ma qualcosa di inedito, sorprendente, stupefacente”. Per questo motivo, il cristiano “non potrà mai dire ‘sono a posto’, ‘mi sento soddisfatto’, ‘più di così non sono obbligato’…”, perché con il comandamento dell’amore “il Signore non stabilisce il minimo indispensabile per sentirsi a posto (non vuole che ci sentiamo a posto), ma un superamento continuo… Cristo e l’altro, è sempre in diritto di esigere ‘di più’, ‘ancora’, ‘meglio’. Non esiste un calmiere per l’amore”.
Per una persona, la forma estrema di innamoramento, è rappresentata dalla santità, scrive Pronzato. La forma estrema di innamoramento è la sequela di Cristo, è amare i propri nemici, è lasciare tutto per seguirlo. È, come si vede, un messaggio radicale, folle per chi contempla solo logica e razionalità e non riesce a vedere le cose alla luce della fede. Come già osservato, la fede e il comandamento dell’amore sono infatti follie ragionevoli, desiderabili, a cui mirare, perché la ricompensa è grande, anzi immensa: la vita eterna!
FANTASIA
La fantasia rinvigorisce l’amore, la fedeltà e la carità
La fantasia nutre, rafforza e rinvigorisce anche la fedeltà che, senza di essa, rischia di ridursi “a stanca replica, copione obbligato, rigidezza, catena inesorabile. L’amore, senza immaginazione, diventa irriconoscibile nella sua opacità”. Con la fantasia, l’amore torna vivace e luminoso e la fedeltà diventa “creatività, freschezza, spontaneità, libertà”.
In altre parole - spiega Pronzato - “grazie alla fantasia, l’amore non si riduce a ripetere gesti meccanici, prestazioni in serie, ma inventa sempre qualcosa di stupefacente, di unico, di esclusivo. L’amore si conserva – e si rafforza e cresce – unicamente quando viene ‘creato’ giorno per giorno, allorché diventa, quotidianamente, ‘una cosa nuova’, mai vista, mai sperimentata prima”.
Dobbiamo prendere esempio da Dio che – osserva lo scrittore – “non sopporta le ripetizioni”. “Dio è amore (1 Gv 4,8) – scrive Pronzato -. E, perciò, Dio è anche fantasia, creatività, inventività. La fantasia, infatti, è il genio dell’amore. Dio è ‘nuovo’. E ama fare cose nuove. ‘Ecco faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?’ (Is 43,19). Nel suo amore, Lui non è mai ripetitivo, scontato, ma sorprendente, inedito, originale:
‘Ora ti faccio udire cose nuove
E segrete che tu nemmeno sospetti.
Ora sono create e non da tempo:
prima di oggi tu non le avevi udite
perché tu non dicessi: ‘Già lo sapevo’” (Is 48,6-7).
Per coloro che ama, Dio crea ‘nuovi cieli e nuova terra’ (Is 65,17)”.
Basta dare un semplice sguardo alla natura, all’infinita varietà di specie vegetali e animali, per rendersi conto della straordinaria e smisurata fantasia di Dio. Una caratteristica questa che appartiene anche all’uomo essendo stato creato a Sua immagine e somiglianza. Anche noi siamo perciò dotati di un pizzico dell’inventiva e della creatività di Dio, quanto basta per rendere più bello il mondo che ci circonda e più vitali e luminosi i rapporti con le persone care. E allora non sprechiamo queste capacità lasciandole sepolte e dimenticate, ma alleniamoci a esercitarle e ricordiamoci di impiegarle nella quotidianità.
Lo stesso fenomeno di “spegnimento” e “decomposizione” dell’amore si verifica anche per la virtù della carità se viene praticata senza il profumo e l’inventiva della fantasia: “La fantasia deve mettersi anche al servizio della carità, per evitarle il pericolo di inaridire, ammuffire e inacidire. La carità, senza il profumo della creatività, diventa una virtù che puzza”.
Usare la fantasia non significa, ovviamente, sognare a occhi aperti e perdere il rapporto con la realtà, la fantasia, infatti, “non fa mai perdere il contatto con la ragione e coi fatti concreti. Tuttavia non esita a spingersi ‘oltre’. Impedisce, così, alla carità di essere semplicemente una noiosa, pedante sgobbona, e perfino una insopportabile bisbetica virtuosa (o presunta tale)”.
La fantasia fa della carità una cosa bella oltre che buona
E per rendere l’amore e la carità più belle, l’utile da solo non basta, ci occorre anche il superfluo: “In questa prospettiva, salta l’opposizione fasulla tra superfluo e necessario. Anche il superfluo, in certe circostanze, può risultare indispensabile… Il dono dell’essenziale, perché non abbia a umiliare, va accompagnato dal superfluo. La carità deve celebrare i propri riti in un clima di festa, non nella tetraggine e nello squallore del dovere compiuto”. Ci sono circostanze in cui – spiega Pronzato – “un fiore può essere indispensabile più del pane, la musica più della minestra, il profumo più del vestito, una fotografia più dell’immaginetta devota. Un povero, talvolta, può aver bisogno di un sorriso più che dell’elemosina (e, comunque, meglio ci siano tutti e due), di un po’ del nostro tempo e della nostra attenzione partecipe, più che dei nostri soldi. Il povero, il sofferente, richiede dignità, prima ancora che compassione…”.
Quindi, per spiegare meglio questo concetto, Pronzato riporta due esempi di cui è stato testimone. Il primo ha per protagonista “un’anziana signora, ospite di una Casa di riposo, modernamente attrezzata” che con lui così si è confidata: “Qui tutto funziona alla perfezione. C’è una organizzazione e un ordine che sono quanto di meglio uno possa desiderare. Qui c’è tutto, lo devo riconoscere, eppure… ma manca ‘l püsé’”. Mi manca il di più, confessava l’anziana allo scrittore, il quale a questo proposito osserva: “Sta alla fantasia intuire questa carenza, anche quando c’è tutto, e assicurare ‘il di più’”.
Il secondo esempio riguarda una coppia di immigrati turchi: due giovani sposi con una bambina di pochi mesi, mancante di tutto, che ottiene una sistemazione in una città della Svizzera italiana. Il marito riesce a trovare un lavoro, ma dopo poche settimane subisce un infortunio (senza copertura assicurativa) che lascia i tre senza alcuna risorsa. Pronzato racconta:
Il “caso pietoso” viene segnalato a una donna sensibile, abituata a interpretare il cristianesimo in chiave di “darsi da fare” per gli altri. Lei si reca in quell’abitazione, e le bastano cinque minuti per fotografare la situazione. Non è che manchi qualcosa, manca proprio tutto. Le condizioni della bimba, in modo particolare, appaiono preoccupanti. Bisogna procurare, d’urgenza, cibo e medicine, vestiti e letto, coperte e un po’ di soldi. Vengono coinvolte nell’operazione di salvataggio anche altre persone, di sicuro affidamento. La fase di emergenza, ben presto, grazie all’intraprendenza e ai sacrifici di quegli individui di buona volontà (tutta gente di condizione sociale modesta), può considerarsi superata.
Un giorno, dopo aver riempito la borsa della spesa, colei che assicura i collegamenti e i… rifornimenti, passando accanto a una fioraia, non sa resistere alla tentazione di “sprecare denaro” per l’acquisto di uno squillane mazzo di rose rosse.
Allorché la giovane sposa turca si vede consegnare, insieme al pane e agli omogeneizzati, quel fascio di fiori, dapprima non sembra credere ai propri occhi, quindi scoppia a piangere. E continua a farfugliare, strabiliata: “Non è possibile… Non posso crederci… Ma sono davvero per me?... Nella mia vita, finora, non ho mai ricevuto un fiore”.
Mi assicurava la protagonista dell’episodio: “In quel momento, grazie a un mazzo di rose rosse, quell’abitazione e quelle persone sembravano trasformate”. Era arrivato finalmente l’amore, debitamente scortato dalla fantasia: profumo e colori. E la vita diventa “un’altra cosa”. E perfino il pane ha un altro sapore
L’ESEMPIO DEI SANTI
Ma, peculiarità della santità sono anche l’umorismo e la follia, come osserva Cucci: “Profondità spirituale, bizzarria, follia costituiscono differenti ‘ingredienti’ della santità, sono un frammento della complessità del mondo di Dio, e del modo con cui Dio vede le cose… L’uomo di Dio, il santo, viene spesso riconosciuto per la sua visione sorprendente delle persone, degli avvenimenti, delle difficoltà della vita; i santi hanno spesso avuto una vita difficile, tribolata con una conclusione tragica, eppure tutto ciò sembra trasfigurarsi e trovare una diversa collocazione, evidenziando ciò che nessuno noterebbe. Non per nulla l’umorismo caratterizza spesso la vita dei santi, ci sono famosi esempi in proposito, come S. Filippo Neri e S. Tommaso Moro”.
A livello spirituale – aggiunge Cucci – umorismo e follia trovano “una ulteriore attuazione nella grande tradizione orientale dei ‘Folli in Cristo’, dove compaiono persone per lo più semplici, umili, con un basso livello di istruzione, ma che avevano raggiunto vette altissime nella spiritualità e nella mistica, conducendo uno stile di vita molto austero insieme ad una notevole bizzarria nel comportamento, al punto da essere visti con sospetto come squilibrati. Alcuni racconti popolari, oltre a fare giustizia sulla reputazione di queste persone, rivolgevano una sottile critica ai dotti e alle autorità spirituali del tempo, riconoscendo che l’incontro con il Signore non disdegna la semplicità, l’austerità e anche l’umiliazione. In questi racconti, narrando le stranezze di questi asceti, viene in realtà bonariamente ridicolizzata proprio l’autorità religiosa seria ed erudita. Questi poveri folli, nella loro ingenuità, avevano capito qualcosa dei misteri del Regno inaccessibili ai grandi”.
Lo psicoterapeuta statunitense Robert H. Hopcke nel suo “La saggezza dei Santi” scrive:
“La tradizione del ‘santo folle’ trova una sua collocazione autentica nel cristianesimo a partire dalle parole che si leggono nella Prima lettera ai Corinzi di Paolo: ‘… noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini. Considerate infatti la vostra vocazione, fratelli: non ci sono tra voi molti sapienti, secondo la carne, non molti potenti, non molti nobili. Ma Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono, perché nessun uomo possa gloriarsi davanti a Dio. Ed è per lui che voi siete in Cristo Gesù, il quale per opera di Dio è diventato per noi sapienza, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto: ‘Chi si vanta si vanti nel Signore’ (1Cor 1,23-31)”.
Gli stessi discepoli scelti da Gesù, “quei discepoli che sarebbero diventati apostoli e quindi i primi santi della tradizione cristiana”, per le loro caratteristiche e qualità – nota Hopcke -, “sono esempi perfetti della tradizione del ‘santo folle’”. Infatti, costoro “sono spesso presentati sotto la luce peggiore: timorosi, ignoranti, incapaci di vedere oltre la lettera delle parole, superficiali, competitivi, increduli e vili”. Quindi non persone colte o straordinarie, o munite di doti fuori dal comune o di particolare intelligenza, ma “individui semplici, umili e goffi, che però rivelano, nella dinamica della loro conversione e illuminazione, l’azione trasformatrice del contatto con Gesù”, caratteristiche che accomunano tutti i cosiddetti “folli in Cristo”.
Quel “servire” di Gesù, come sappiamo, è una proposta totale, radicale che arriva fino a sacrificare la propria vita per la salvezza di qualcun altro. “Non ci sono sconti – osserva in proposito Lambiasi -. Nessuna scorciatoia verso il Calvario e oltre il Calvario. Perché? Non ci saranno mai risposte decifrabili dalla sola ragione. Ma la vita di tanti folli, cioè di tanti santi, continua a far nascere domande. Forse più in chi non crede che in chi crede. A dire ancora una volta che Qualcuno è venuto a servire i malati e non i sani. Siamo alla soglia del mistero dell’Amore. Si tratta di decidere se varcarla o fare un passo indietro. Oltre quella soglia c’è una certezza: Dio è amore. E sono i folli a fare il passo avanti, nella luce”.
Bibliografia
Alessandro Pronzato, Alla ricerca delle Virtù perdute, Gribaudi, settembre 2000, pp. 192-203.
Robert H. Hopcke, La saggezza dei Santi, Mondadori, 2010, pp. 25-27, 106-108.
Francesco Lambiasi, Una Parola al giorno, Editrice Ave, Roma, 2006, pp. 394, 395.