MALE MINORE e DROGA LIBERA
La promiscuità sessuale è già stata sdoganata, l’alcool e il gioco d’azzardo sono già stati liberalizzati, è arrivata l’ora di passare a qualcosa di più forte, qualcosa che rincretinisce di più e meglio, è arrivato il tempo di legalizzare le droghe.
Gli alfieri del diritto a drogarsi sanno che se proponessero la liberalizzazione delle droghe tout court non avrebbero alcuna possibilità di successo, visto il persistere di una forte disapprovazione sociale nei confronti delle cosiddette droghe “pesanti” (eroina, cocaina, anfetamine,…). Per questo motivo hanno adottato la linea di procedere un passo per volta promuovendo, tanto per iniziare, la legalizzazione delle droghe “leggere” (hashish e marijuana). A quel punto basterà ribaltare in chiave liberale l’obiezione ribadita dai contrari alla legalizzazione, secondo i quali “la distinzione tra droghe leggere e pesanti è fallace, perché tutte le droghe fanno male”, che rovesciata diverrebbe “la distinzione tra droghe leggere e pesanti è fallace, perché tutte hanno gli stessi effetti psicoattivi, se la cannabis è legale non possono non esserlo anche la cocaina e l’eroina”.
Nella relazione del 2011 del Dipartimento Politiche Antidroga (DPA), si legge:
“Sempre più spesso fonti informative non accreditate da un punto di vista scientifico propagandano le supposte e numerose proprietà terapeutiche della cannabis e dei farmaci a base di THC. Organizzazioni orientate alla legalizzazione utilizzano impropriamente spesso articoli scientifici riportanti risultati positivi di trials clinici su tali farmaci per far percepire e promuovere il concetto dell’innocuità dell’uso della cannabis e dei suoi poteri medicamentosi per curare (in realtà produrre effetti sintomatici e non eziologici) patologie molto gravi che impressionano l’immaginario collettivo quali il cancro, la sclerosi multipla, il morbo di Crohn, ecc. La US National Multiple Sclerosis Society a tal proposito ha affermato che non vi è nessuna evidenza scientifica che provi l’efficacia della marijuana sulle persone affette da Sclerosi Multipla.
Pur essendo concordi ad approfondire questi aspetti con studi scientifici, è chiara la demagogica intenzione di far percepire tale sostanza stupefacente, attraverso la pubblicizzazione ed esagerazione delle sue qualità ed applicazioni mediche, come ‘positiva, utile e salutare’ ottenendo così una diminuzione della percezione del rischio e dei danni che essa può produrre se usata anche per scopi voluttuari. Oltre a questo non si considera né tantomeno si esplicita la profonda differenza che esiste tra i farmaci a base di THC prodotti dall’industria farmaceutica e i prodotti artigianali e non controllati provenienti dalla produzione fraudolenta.
Chiaramente l’equazione ‘se il THC va bene per tante malattie allora vuol dire che fa bene alla salute e non c’è problema ad usarlo’ non può essere accettata e va contrastata. Niente in contrario a sperimentare e studiare le potenzialità mediche del THC attraverso le tradizionali e severe metodologie della ricerca ma non è accettabile fare della demagogia per sostenere la bontà della legalizzazione e dell’uso a scopo voluttuario. A conferma di ciò, basti ricordare che negli USA il Marinol, il farmaco in cui viene isolato ed utilizzato in modo sicuro il principio attivo del THC, è stato approvato come medicinale prescrivibile dalla Food and Drug Administration (FDA). La DEA [Drug Enforcement Administration] ha supportato e facilitato la ricerca sul Marinol ma fumare ‘marijuana da strada’ non ha alcun beneficio medico comprovato e non ha niente a che vedere con il farmaco Marinol” (p. 16).
“Quello che non può essere accettato dalla medicina moderna è che si possa pensare che ogni malato possa prodursi il proprio ‘farmaco’ a domicilio, senza alcun controllo sul tipo di pianta coltivata e la percentuale di principio attivo, la qualità dei prodotti destinati a uso umano e medico in particolare, la quantità di autosomministrazione che verrebbe decisa esclusivamente dal paziente. Senza contare i problemi di dipendenza […] Né è accettabile che [la cannabis] venga dipinta come una sostanza ‘positiva, utile e salutare’ anche per l’uso voluttuario e ricreativo, dimenticando i danni che produce nell’organismo umano e in particolare sul cervello degli adolescenti”.
Scrive il DPA nel documento già citato:
“Per comprendere la reale pericolosità di una sostanza va considerata la ‘mortalità droga correlata’ e i rischi incrementali aggiunti di patologie quale quelle cardiache, polmonari e vasculo-cerebrali (es. infarto miocardio, cancro del polmone, ictus, etc.) rispetto alla popolazione normale non consumatrice. Nel novero della cosiddetta tossicità, vanno anche valutate le conseguenze non mortali ma altamente invalidanti sulle funzionalità neuropsichiche in grado di alterare e far perdere capacità estremamente importanti per il futuro dell’individuo quali la memorizzazione, l’attenzione, l’apprendimento e la motivazione, funzioni cognitive fondamentali per lo sviluppo della persona e per la sua realizzazione e autonomizzazione sociale.
Altri fattori da valutare come criteri di pericolosità di una sostanza (e la cannabis ne è il classico esempio) sono anche la facile accessibilità, la grande disponibilità, il basso costo e la bassa percezione del rischio ad essa correlata da parte della popolazione vulnerabile. Tutto questo in relazione soprattutto al fatto della capacità della sostanza di far iniziare percorsi evolutivi verso forme gravi di addiction proprio per questa sua parvenza e percezione di innocuità. Queste caratteristiche fanno sì che il numero di persone che utilizzano queste droghe sia molto alto, proprio come nel caso della cannabis e dei suoi derivati.
È provato che i cervelli di persone vulnerabili, sensibilizzati in giovanissima età con cannabis, spesso evolvano con più facilità, in età più avanzate verso forme di addiction da eroina o cocaina… Non è un caso che circa il 95% delle persone in trattamento per dipendenza da eroina abbiano iniziato il loro percorso con la cannabis.
La ‘tossicità’ quindi va valutata anche con questi criteri oltre che con le evidenze derivanti dall’applicazione delle moderne tecniche di neuroimaging e spettroscopiche, in grado di cogliere danni che prima non potevano essere documentati”. (pp. 20, 21).
“Se magicamente si potesse cancellare la cannabis dal mondo, avremmo una diminuzione dei casi di schizofrenia del 40%. Oggi registriamo disturbi psicotici gravi sempre più precoci. Abbiamo persone di 24-25 anni che, dopo anni di abuso, hanno il cervello di un novantenne e un futuro di lungoassistiti… Insomma, definire la cannabis una droga leggere è una vera fesseria”.
Arriviamo ora all’argomento di questo scritto: il “male minore”. Secondo le linee guida contenute nel rapporto “War on drugs”, elaborato dalla Global Commission on Drug Policy, e consegnato alle Nazioni Unite nel giugno 2011, le politiche antidroga “devono essere improntate a criteri scientificamente dimostrati”, devono avere come obiettivo “la riduzione del danno”, e devono essere “basate sul rispetto dei diritti umani”, mettendo fine alla “marginalizzazione della gente che usa droghe” o è coinvolta nei livelli più bassi della “coltivazione, produzione e distribuzione”.
La nuova parola d’ordine della guerra alle droghe è, in parole povere, “legalizzazione”, peccato però che essa contrasti proprio con i criteri scientificamente dimostrati invocati dalla Commissione Globale per le Politiche sulle Droghe. Infatti, se esaminiamo una per una le tesi antiproibizioniste volte alla “riduzione del danno”, cioè i vari “mali maggiori” che la droga libera (male minore) dovrebbe prevenire, si scopre che sono proprio le evidenze scientifiche a demolire la validità delle tesi che dovrebbero ridurre il danno.
Vietare le sostanze stupefacenti – dicono i favorevoli alla legalizzazione - non ne scoraggia l’utilizzo, poiché il divieto li rende frutti proibiti e affascinanti. Secondo questa tesi, potersi drogare alla luce del sole e senza subire sanzioni, farà perdere alla droga la sua ritualità segreta e trasgressiva, portando a una riduzione del numero di assuntori e di conseguenza dei consumi. Ma questo ragionamento non sta né in cielo né in terra, non essendoci una sola evidenza scientifica che ne attesti la validità. La realtà e le ricerche empiriche dimostrano, infatti, che avviene esattamente il contrario. Lo abbiamo già visto molte volte e qui lo riaffermiamo: legalizzare una pratica illecita significa normalizzarla, questo determina la perdita di disapprovazione sociale nei confronti di quella pratica e, nel caso delle droghe, la perdita di percezione dei rischi per la salute, con conseguente incentivazione e incremento della pratica stessa.
Gli studi e le ricerche condotte al riguardo, dimostrano che la maggior parte delle persone tende a rispettare un determinato divieto, adeguando a esso il proprio comportamento, ancor più se è condiviso della collettività o dal gruppo dei pari, e se è regolato con opportune sanzioni. Scrive il DPA:
“Alcune organizzazioni che promuovono la legalizzazione sostengono che il porre divieti e formali proibizioni all’uso di sostanze sarebbe in realtà incentivante i comportamenti trasgressivi e di consumo nella maggior parte dei giovani. Anche per questo motivo si giustificherebbe la legalizzazione. Non esistono però studi né ricerche che dimostrano in termini epidemiologici e scientifici che le proposte di cambiamento comportamentale dei giovani che vengano sostenute attraverso divieti fissati per legge, proibizioni e sanzioni producano sempre comportamenti reattivi di trasgressione e non di adesione al divieto in larghi strati di popolazione giovanile…
La disapprovazione sociale dell’uso delle droghe e dell’abuso alcolico, esplicitata anche attraverso una chiara legge sanzionatoria, è di fondamentale importanza ed è in grado di condizionare positivamente la maggior parte dei giovani nel loro stile di vita e nel comportamento di assunzione. Non è vero pertanto che la maggior parte dei giovani non rispetta le ‘proibizioni’ socialmente definite, non adattando il proprio comportamento di salute a tali divieti. In realtà, tutti i divieti o gli obblighi comportamentali posti dallo Stato, anche in altri ambiti, per ridurre comportamenti a rischio per la salute quali ad esempio non guidare una moto senza casco, non fumare negli ambienti pubblici, indossare i presidi antinfortunistica sul lavoro, non passare con il semaforo rosso, ecc., hanno sempre portato la maggioranza delle persone a conformarsi all’indicazione e a rispettare i divieti, ovviamente con le debite eccezioni che costituiscono comunque una forte minoranza.
La maggior parte dei giovani, in questi casi infatti rispetta i divieti e le proibizioni e non si comprende perché dovrebbe essere diverso per il divieto dell’uso di sostanze stupefacenti. A conferma indiretta di ciò va ricordato che attualmente la percentuale che almeno una volta nell’ultimo anno ha usato droghe in Italia nella fascia di età compresa tra i 15 e i 19 anni è di 22,1%, percentuale che sarebbe destinata a salire se il restante 77,9% di individui percepisse la possibilità di utilizzare droghe liberamente e in maniera legale. Siamo infatti convinti che una percentuale maggioritaria di giovani liberi dalle droghe venga mantenuta anche grazie alla legge che sancisce senza equivoci che usare droghe è un illecito, ne vieta esplicitamente il consumo. Questo divieto viene percepito ed elaborato cognitivamente dal singolo come norma sociale, producendo la realtà epidemiologica italiana che vede fortunatamente la percentuale di consumatori come minoritaria”. (pp. 11, 12)
Osserva il DPA:
“Una semplice ma molto efficace considerazione epidemiologica che dovrebbe far riflettere su che cosa comporta la legalizzazione di sostanze psicotrope tossiche è quella relativa all’alcol e al tabacco: il più alto numero di persone tossicodipendenti da sostanze e decedute o rese invalide al mondo si registra proprio per quelle sostanze più legalizzate, per l’appunto l’alcol e il tabacco. L’Istituto Superiore di Sanità dice che ogni giorno si fumano 15 miliardi di sigarette, secondo l’OMS il tabagismo uccide 6 milioni di persone all’anno.
La loro legalizzazione, nel tempo, ha prodotto in prima istanza un calo della percezione della loro pericolosità nella popolazione ed un aumento esponenziale dei consumatori e quindi dei dipendenti, oltre che delle conseguenze mediche più macroscopiche ad esse correlate quali per esempio il cancro del polmone o la cirrosi epatica. Basti pensare inoltre che molti Stati in questi ultimi anni, constatato l’errore e le conseguenze di queste scelte nel lungo termine, stanno andando verso un nuovo ‘proibizionismo’ per il tabacco fatto di divieti ambientali, aumenti dei prezzi, incremento dei premi assicurativi se fumatore, penalizzazioni e sanzioni varie se trasgressore del divieto di fumo, divieto di pubblicizzare le sigarette anche nei film ecc. oltre che una forte e diffusa disapprovazione sociale” (p. 17).
Tra gli altri “mali maggiori” che – secondo le teorie antiproibizioniste - la droga legale dovrebbe prevenire, vi sono i morti per overdose e i danni per la salute causati dagli additivi usati dagli spacciatori. Questo perché le droghe “pesanti” sarebbero somministrate - da medici, strutture sanitarie o dispensari - allo stato puro, senza l’aggiunta di quelle sostanze nocive con cui di solito gli spacciatori tagliano la droga, ma anche questa tesi fa acqua da tutte le parti, osserva infatti il DPA:
“L’assunto che ‘se le sostanze fossero pure, come quelle distribuite dallo Stato, non sarebbero nocive per la salute’ è completamente da rigettare perché smentita dai fatti: nelle analisi chimicotossicologiche condotte su cadaveri di persone decedute per overdose mai è stata riscontrata una sostanza più tossica della droga stessa…
È noto infatti che si tratta di sostanze altamente tossiche, responsabili di molti decessi che, solo nell’immaginario collettivo e nelle notizie di cronaca, vengono tipicamente attribuiti alle ‘cattive sostanze da taglio’” (p. 21).
Se si vogliono prevenire le morti per overdose e i danni sulla salute delle sostanze stupefacenti, la strada non è la legalizzazione, ma il divieto e le sanzioni, affinché sia proclamata forte e chiara la pericolosità di tutte le droghe, e la maggior parte delle persone si tenga a debita distanza da esse e dai loro effetti devastanti.
Altri due “grandi mali” che, stando alle teorie antiproibizioniste, la legalizzazione delle droghe dovrebbe prevenire, sono quelli relativi all’azione della criminalità e ai costi sostenuti per contrastarla. Secondo queste congetture, un mercato legale della droga avrebbe un doppio vantaggio: da un lato la criminalità organizzata si vedrebbe sottrarre mercato e guadagni, ritrovandosi così indebolita nella sua capacità di inquinare l’economia reale e di corrompere apparati dello Stato, determinando di conseguenza una vantaggiosa riduzione dei costi sostenuti per combatterla. Dall’altro lato si assisterebbe a una riduzione dei costi del sistema di giustizia penale, perché se è lo Stato a distribuire la droga e se il farne uso non è più illegale, i tribunali non saranno più inondati di cause per violazione dei divieti e per i reati commessi dai tossicomani nel tentativo di procurarsi illecitamente le sostanze. I trasgressori e i criminali che finiranno in carcere saranno perciò molti di meno, con grande beneficio per le casse dello Stato.
In parole povere, la liceità dell’uso di droga e la sua distribuzione da parte dello Stato avrebbe effetti molto positivi sia a livello economico che di contrasto alla criminalità organizzata e individuale. Tuttavia, se rapportiamo queste teorie ai “criteri scientificamente dimostrati” - come indicato nelle linee guida della Global Commission on Drug Policy e come è giusto che sia -, scopriamo ancora una volta tutta la loro fallacia, poiché sono proprio le evidenze scientifiche che le smentiscono.
Affinché la legalizzazione delle droghe sia efficace nel sottrarre mercato e guadagni alla criminalità organizzata, le sostanze stupefacenti dovrebbero essere garantite a tutte le persone, indipendentemente dall’età e dal tipo di lavoro svolto, per evitare che i gruppi criminali continuino la loro attività illecita con chi è rimasto escluso dalla fornitura di Stato in quanto non autorizzato a riceverla. Tuttavia, è del tutto evidente, che una così piena liberalizzazione sia impossibile da mettere in pratica, si pensi per esempio ai minori, alle donne in stato interessante, a coloro che svolgono particolari mansioni, come guidare mezzi pubblici, pilotare aerei, eseguire interventi chirurgici, azioni militari, ecc. Si tratta di un gruppo cospicuo di persone nei confronti del quale l’uso di droghe dovrà rimanere tassativamente vietato, rendendoli perciò clienti appetibili per il mercato illegale, che continuerà a realizzare con loro i suoi traffici e guadagni.
Le droghe andrebbero sicuramente vietate ad adolescenti e giovani fino ai 21 anni di età, poiché è scientificamente provato che fino a quell’età le sostanze stupefacenti possono provocare danni molto gravi al cervello e alla mente, essendo ancora in atto la maturazione cerebrale con i processi di mielinizzazione, sinaptogenesi e “pruning”. La legalizzazione delle droghe renderebbe perciò meno protetti proprio i soggetti più vulnerabili e più attratti dalle sostanze, con il richiamo del mercato illecito parallelo che eserciterebbe su di loro una pressione ancora più forte per via della loro esclusione dal mercato legale.
Scrive il DPA:
“Non esiste alcuno studio né evidenza scientifica solida che dimostri che la legalizzazione in un contesto sociale industriale avanzato sia in grado di ridurre efficacemente gli introiti delle organizzazioni criminali… L’eliminazione di questa fonte di reddito fraudolento ad oggi è solo un’ipotesi.
È noto infatti che tali organizzazioni criminali trafficano e commerciano in vari tipi di droghe e che, legalizzando uno solo di questi prodotti quale ad esempio la marijuana, non si produrrebbero danni commerciali tali da mettere le organizzazioni in crisi, come dimostrato da studi statunitensi in merito, in quanto compenserebbero con altri introiti derivanti da mercati di altre sostanze e comunque da mercati sicuramente più competitivi con quelli legali anche sulla stessa sostanza. Pertanto, allo stato attuale, questa resta solamente un’utopica aspettativa di soluzione ‘chirurgica’” (p. 19).
“In ambito organizzativo, legalizzare significherebbe sostenere i costi derivanti dall’attuazione di un gigantesco sistema statale di produzione, controllo, catena di custodia e distribuzione delle sostanze. Significherebbe insomma finanziare un apparato statale strutturato a gestire la legalizzazione e lo smercio, al fine di creare un mercato ‘competitivo’ per la vendita delle sostanze (rispetto a quello delle mafie e del crimine organizzato) estremamente costoso, complesso e in realtà affatto competitivo. Anche per questi motivi, il mercato nero è una realtà non sradicabile da una semplice politica di legalizzazione (p. 14).
I costi produttivi per le organizzazioni criminali, considerati i loro bassi standard di produzione utilizzati, saranno sempre più bassi e competitivi rispetto a quelli della produzione industriale professionale che deve garantire sicurezza, qualità e stabilità del prodotto, caratteristiche che devono essere assicurate non solo per la produzione ma anche per il packaging e la distribuzione.
Legalizzare la marijuana addosserebbe ad un governo l’onere di regolamentare un nuovo mercato legale, pur continuando a pagare gli effetti collaterali negativi associati a un mercato sotterraneo i cui fornitori hanno ben pochi vantaggi economici a farlo scomparire” (p. 19).
“Anche se tutte le droghe fossero legali, tasse elevate sulle droghe provocherebbero violenti cartelli della droga per battere i prezzi legali e mantenere la propria quota di mercato. Con l’aumento della domanda che deriverebbe dalla legalizzazione, questi gruppi probabilmente si rafforzerebbero e le loro attività – estorsione, traffico di esseri umani, pirateria, ecc. – continuerebbero con la stessa violenza” (p. 19).
Ma il mercato legale sarebbe disincentivato anche per un altro motivo: la necessaria identificazione del cliente al momento dell’acquisto della droga che incoraggerà i consumatori occasionali e, in generale, tutti coloro che vorranno farne uso mantenendo anonimato e riservatezza evitando di finire nei registri dello Stato, a rivolgersi al mercato illegale. Da questo punto di vista lo Stato parte sfavorito rispetto alla distribuzione illegale
“che vede gli spacciatori utilizzare sempre tecniche personalizzate, ‘porta a porta’, di consegna a domicilio e senza richiedere alcun dato anagrafico al cliente (p. 14).
Esisterebbe sempre infatti un mercato parallelo illegale in quanto le persone che dovrebbero fruire di sostanze legali dovrebbero comunque accedere a sistemi di distribuzione controllati e formali, con identità del cliente ‘in chiaro’ per evitare abusi, duplicazioni di somministrazione o sfruttamenti impropri, un sistema pertanto che identifica e registra chiaramente il cliente. Molte di queste persone, pur di non essere identificate e/o registrate come consumatori ‘autorizzati’ di sostanze non si recherebbero presso questi ‘dispensari’ ma continuerebbero a preferire lo spacciatore, anche se più costoso (e che comunque avrebbe calato i prezzi vista la concorrenza e la loro capacità competitiva) mantenendo così un mercato parallelo illegale” (p. 19).
Ma gli acquisti al mercato statale sarebbero scoraggiati, oltre che dallo spaccio illegale “porta a porta”, anche dal già oggi molto fiorente commercio via internet, destinato a espandersi dopo la liberalizzazione delle droghe:
“La legalizzazione delle sostanze ed in particolare della cannabis e dei suoi semi per coltivazione va valutata anche alla luce del mercato ad oggi molto presente ed in espansione in internet e non solo dello spaccio territoriale. Tale forma di offerta e distribuzione infatti sta assumendo sempre di più dimensioni ragguardevoli e sarebbe sempre più competitiva di quella statale. Questo comporta un’ulteriore problematica per l’impossibilità materiale di controllare questi flussi commerciali e di poter mantenere un’unica distribuzione legalizzata controllata.
La legalizzazione comporterebbe un fiorire di siti internet che moltiplicherebbero le loro offerte in maniera iperbolica, con una ulteriore difficoltà di controllo del mercato e dell’offerta alternativa a quella legale” (pp. 15, 16).
E i costi del sistema di giustizia penale? Non pare proprio che il sistema di giustizia penale si ritroverà alleggerito nei costi dopo la legalizzazione delle droghe. Osserva, infatti, il DPA:
“I sostenitori della legalizzazione affermano che i costi del proibizionismo – principalmente attraverso il sistema della giustizia penale – sono un grosso fardello sulle spalle dei contribuenti e dei governi. Ci sono certamente costi per gli attuali divieti, ma legalizzare la droga in realtà non diminuirebbe le spese del sistema di giustizia penale in quanto i problemi correlati alla produzione illegale, al traffico, allo spaccio e alle altre attività criminali, non potrebbero essere concretamente ridotti. In Olanda dove si è legalizzata la cannabis all’interno dei coffee shop, si è comunque assistito nelle aree limitrofe ad un incremento delle attività criminali in relazione con la produzione illegale e chiaramente non autorizzata, su tutto il territorio nazionale, con un conseguente aumento delle attività della giustizia penale. Inoltre, nella maggior parte dei paesi al mondo, gli arresti per abuso di alcol come nei casi di violazioni delle leggi in guida in stato di ebbrezza sono di gran lunga superiori agli arresti per droga” (p. 22).
“è una delle città più violente su scala europea… La legalizzazione della marijuana non riduce l’impatto e le attività legate al drug trafficking e della malavita. Molti sono i coffee shops che vengono accusati nel rapporto dell’Advisory Comittee on Drugs Policy olandese di interagire con il crimine organizzato, raccomandandone un maggior controllo da parte delle forze dell’ordine, un allontanamento dalle zone limitrofe a scuole ed una riduzione del loro numero. Nei Paesi Bassi, il Report presentato dall’Advisory Comittee on Drugs Policy ha evidenziato la necessità di riconsiderare la legislazione in materia di drug policies a causa degli effetti negativi correlati alla legalizzazione” (p. 24).
“Chi è attualmente carcerato per reati inerenti allo spaccio e al traffico di droga, nella maggior parte dei casi non lo è per piccole quantità o per attività svolte occasionalmente o di poco conto ma per attività e reati di una certa consistenza che più che il bisogno dettato dalla dipendenza sono stati dettati dalla volontà di procurarsi denaro per assicurarsi facilmente redditi senza essere costretti a svolgere attività normali lavorative di solito molto a più basso rendimento finanziario rispetto alle attività criminali.
Chi sostiene che legalizzare snellirebbe il sistema di giustizia penale non considera però che la legalizzazione favorirebbe l’aumento del fenomeno della criminalità e dei reati compiuti sotto gli effetti dell’uso di sostanze (come rapine, scippi, violenze): in tal caso la legalizzazione non giustificherebbe di certo l’immunità o impunità rispetto ad atti illegali agiti sotto l’influenza delle droghe che implicherebbero comunque la detenzione… Per le persone con dipendenza e quindi uno stato di malattia che li costringe a procurarsi la sostanza stupefacente e di conseguenza a volte a delinquere per questo, in Italia come in tanti altri paesi esiste sempre la valida e facilmente ottenibile alternativa dell’entrata in terapia anche per ridurre i fabbisogni giornalieri di denaro per l’acquisto delle droghe” (p. 23).
“Negli Stati Uniti, ad esempio, le entrate delle imposte federali sull’alcol incassate nel 2007 si aggiravano intorno ai 9 miliardi di dollari; gli stati riscuotevano circa 5,5 miliardi di dollari. Se si sommano, queste cifre sono inferiori al 10% dei 185 miliardi di dollari calcolati per le spese correlate all’alcol in termini di assistenza sanitaria, giustizia penale, e di una ridotta produttività lavorativa… Quindi l’affermazione che spesso le organizzazioni pro legalizzazione fanno e cioè: ‘lo Stato recupera ampiamente i costi di fabbricazione delle sostanze che verranno commercializzate ad un prezzo notevolmente ridotto’ risulta totalmente fuori luogo ed infondata perché nel computo dei costi, oltre a quelli produttivi, andranno inseriti quelli incrementali relativi alle cure degli effetti negativi sulla salute, all’apparato di controllo che dovrà essere aumentato e quello relativo alla distribuzione gestita delle sostanze, non che alla perdita di produttività e redditività di centinaia di migliaia di persone” (p. 23).
Il programma di controllo del tabagismo in California è costato 1,4 miliardi di dollari nei suoi primi 15 anni, e i 3,6 milioni di pacchetti di sigarette non fumati, nello stesso periodo di tempo, hanno ridotto le entrate dello Stato di 3,1 miliardi di dollari. Tra costi e mancate entrate lo Stato ha perso 4 miliardi e mezzo in 15 anni, ben poca cosa rispetto agli 86 miliardi di costi di assistenza sanitaria diretta che il programma gli ha invece permesso di risparmiare (p. 18).
In conclusione, se c’è qualcosa in grado di combattere la criminalità, contenendone i guadagni e le attività illecite; di tenere basso il numero dei consumatori di droghe e di coloro che ne diventano dipendenti; di tenere bassa l’insorgenza di malattie correlate all’uso di sostanze e i corrispondenti costi sanitari; di limitare i costi a carico dello Stato e della collettività… la strada è una sola: vietare le droghe e sanzionare i trasgressori.
L’approccio politico della “riduzione del danno” dimostra, anche in questo caso, tutta la sua fallacia e pericolosità, poiché non solo non riduce i danni di partenza, ma dei danni di partenza – e di nuovi e ulteriori danni a essi conseguenti - ne è addirittura l’artefice. Il risultato finale è sempre lo stesso: un “male maggiore” assai più grave ed esteso di quello che le politiche della “riduzione del danno” dovrebbero prevenire.